Nei periodi particolarmente caldi, il clima è più instabile? Lezioni dall'ultimo periodo interglaciale

Lunedì 22 ottobre

E. Regattieri e G. Zanchetta,  ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra hanno partecipato a uno studio guidato da Chronis Tzedakis dell'University College di Londra e pubblicato recentemente su Nature Communication

Valutare la variabilità naturale del clima nei periodi caldi del passato è di fondamentale importanza per migliorare le proiezioni relative agli scenari futuri di riscaldamento globale. Lo studio dell'ultimo periodo interglaciale (129-116 mila anni fa) è particolarmente rilevante perché questo periodo è stato caratterizzato da un intenso riscaldamento artico, con temperature stimate più elevate rispetto ai livelli preindustriali dell’Olocene, e quindi paragonabili agli scenari di riscaldamento previsti per le alte latitudini per la fine di questo secolo. In conseguenza di tale riscaldamento si stima che il livello globale del mare durante l'ultimo interglaciale sia stato di circa 6-9 m superiore al livello attuale, con 0,6-3,5 m derivati dalla fusione della calotta glaciale della Groenlandia.

Numerosi archivi naturali del clima passato mostrano per l’ultimo interglaciale una significativa variabilità a scala secolare nelle temperature e nelle precipitazioni del Nord Atlantico e dell’Europa. Tuttavia, c’è tuttora una notevole incertezza sull’età, l'estensione e l'origine di queste oscillazioni climatiche.

In un nuovo studio guidato da Chronis Tzedakis dell'University College di Londra e pubblicato recentemente su Nature Communication, i ricercatori di dodici istituzioni, tra cui due ricercatori del nostro Dipartimento (E. Regattieri e G. Zanchetta), presentano dati dettagliati sui cambiamenti oceanici e atmosferici dall'Atlantico settentrionale e dell'Europa meridionale, fornendo nuove informazioni sulla natura dei cambiamenti climatici durante l'ultimo interglaciale.
Per affrontare le incertezze nel confrontare informazioni provenienti da ambienti diversi, i ricercatori hanno prodotto una sorta di "stele di rosetta stratigrafica" tramite lo studio di una carota di sedimento marino proveniente dal margine atlantico della penisola iberica. Sugli stessi campioni di sedimento sono stati infatti analizzati sia diversi fossili sia il contenuto e il tipo di polline trasportato nelle profondità marine. Questo ha consentito un confronto diretto tra cambiamenti nella vegetazione e cambiamenti nelle condizioni dell'oceano Atlantico.

I cambiamenti nella vegetazione sono stati quindi collegati a variazioni nella quantità di pioggia, registrate nelle proprietà geochimiche delle stalagmiti della grotta “Antro del Corchia”, sulle Alpi Apuane. E’ in questo ambito che i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra, in collaborazione con R. Drysdale dell’Università di Melbourne hanno fornito dati fondamentali per la ricostruzione paleoclimatica e cronologica dell’intervallo considerato. Il record del Corchia è particolarmente importante perché è supportato da datazioni radiometriche molto dettagliate, basate sul decadimento degli isotopi dell’uranio, e rappresenta una delle migliori cronologie disponibili per questo periodo. Il collegamento tra Corchia e margine portoghese ha quindi permesso ai ricercatori di collocare i cambiamenti climatici nel Nord Atlantico in un quadro cronologico di raro dettaglio.
Lo studio ha rivelato che l'ultimo interglaciale nell'Europa meridionale è stato caratterizzato da una serie di periodi aridi di durata secolare, coincidenti con l’espansione di masse di acqua fredde nel Nord Atlantico. Utilizzando esperimenti di modellizzazione climatica, è stata quindi esplorata l'origine di questa instabilità climatica. I risultati sostengono l’idea che queste variazioni climatiche sono legate alle variazioni nella circolazione oceanica del Nord Atlantico che ha un effetto diretto sul clima dell’Europa meridionale.

I dati hanno anche mostrato come la variabilità climatica plurisecolare nel Nord Atlantico e nell'Europa meridionale durante l’ultimo interglaciali sia stata maggiore di quella dell’interglaciale attuale (cioè degli ultimi 11.6 mila anni). Lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia a causa dell'eccessivo riscaldamento alle alte latitudini potrebbero aver contribuito, durante l’ultimo Interglaciale, all'indebolimento della circolazione oceanica del Nord Atlantico inducendo i periodi aridi osservati in Europa. Quindi, una delle possibili conclusioni è che
Sebbene l’ultimo interglaciale non sia un analogo rigoroso per i futuri cambiamenti climatici dovuti alla attività umana, il profilo che emerge è quello è di una maggiore instabilità climatica su scala secolare durante i periodi più caldi dell’attuale. Questo potrebbe indicare quindi che il progressivo riscaldamento che stiamo osservando possa generare fenomeni di instabilità climatica significativa.

https://www.unipi.it/index.php/news/item/13557-come-sara-il-clima-del-mediterraneo-nei-prossimi-100-anni